Il presidente degli USA
Donald Trump sembra deciso a mantenere le promesse elettorali e a far valere
tutta la sua autorità per preservare gli interessi (ovvero gli utili) delle
imprese manifatturiere americane che rischiano di essere in parte lesi
dall'enorme sviluppo del cosiddetto mercato globale.
La libera circolazione
delle merci o di particolari prodotti non viene esclusa per principio (come
talvolta storicamente verificatosi), ma alcuni beni saranno gravati da un dazio
abbastanza consistente.
Come concreto inizio, in
America per importare dall'estero alcuni elettrodomestici e i pannelli di
trasformazione dell’energia solare, si dovranno pagare alla dogana tra il
trenta e il cinquanta per cento del valore di quanto acquistato.
Anche qualche politico
europeo ha da tempo espresso il proprio gradimento per una svolta protezionista
genericamente ritenuta utile e le motivazioni addotte per caldeggiare tale
provvedimento vanno oltre la semplice considerazione degli aspetti utilitaristici.
La giustificazione della
opportunità di imporre notevoli dazi all'importazione o addirittura il divieto
di libera circolazione di alcuni beni per molti (esperti di economia) europei
ed in particolare italiani deriva addirittura da principi etici e non solo
economici.
Viene fatto riferimento
alle condizioni pessime ed in alcuni casi quasi inumane in cui sono costretti
ad operare i dipendenti di molte aziende, specie di paesi orientali in via di
sviluppo che esportano nel resto del mondo una miriade di oggetti, potendo
produrre e vendere a basso costo, grazie ai sacrifici cui sono costretti i loro
lavoratori.
Si affiancano pertanto
oggi almeno due differenti concezioni del protezionismo, una puramente
economica ed una etico economica.
Produrre dove si vuole e
vendere dove vi è richiesta sono i principi della globalizzazione in atto e
questo rende comunque difficile applicare la politica protezionista.
Lo stesso Trump, prima di
decidere le tipologie degli elettrodomestici che saranno assoggettati alle nuove imposizioni, ha
sicuramente dovuto considerare anche quali e quante delle realtà produttive
americane abbiano già de localizzato all'estero parte della produzione ed in
effetti non ha potuto semplicemente sottoporre a tassa di importazione tutti gli
elettrodomestici, ma solo quella parte di questi che viene in gran quantità
fabbricata anche sul patrio suolo.
In Italia ed Europa la
applicazione di dazi elevati sulle merci prodotte all'estero è prevalentemente
ritenuta inopportuna e tale opinione è stata espressa anche in occasione della
recente riunione di Davos dove quasi tutti i massimi rappresentanti dei vari
paesi, discutendo di economia mondiale, si sono dichiarati di fatto favorevoli
alla attuale regolamentazione internazionale.
In realtà tutte le polemiche
in merito sono destinate a cessare quando le nazioni, attualmente
sottosviluppate, che producono a basso costo e vendono in tutto il mondo, si
saranno arricchite e affrancate dal sottosviluppo proprio grazie alla politica
della libera circolazione dei beni e di conseguenza non sfrutteranno più, come
fanno ora, i lavoratori.
Già oggi per esempio e da
tempo, non risulta più conveniente produrre, come in passato, alcuni apparati
elettronici in Taiwan, ove i costi locali del lavoro, la qualità della vita e
il benessere stesso dei lavoratori sono cresciuti in parallelo allo sviluppo
dell’economia, talchè alcune multinazionali che avevano investito in tale paese
molti anni orsono hanno cessato di produrre e in pratica RIDELOCALIZZATO in
altre nazioni.
La libera circolazione
dei beni quindi favorirebbe lo sviluppo mondiale e contribuirebbe ad una più
equa redistribuzione delle ricchezze.
Il problema è che a
livello mondiale il riequilibrio tra paesi ricchi e poveri attraverso i meccanismi
commerciali di tipo liberistico avviene nel lunghissimo periodo (decine di
anni) e che ormai da troppo tempo i paesi più sviluppati sono interessati da
una crisi economica, innescata dagli avventati, scorretti e predatori
comportamenti di grandi banche
internazionali e finanzieri senza scrupoli.
La stessa crisi evidenzia
ora la necessità di ottenere un incremento rapido della produzione e di
conseguenza della occupazione, magari attraverso la limitazione delle
importazioni di beni, per lo più di consumo, che verrebbero pertanto prodotti
in casa anziché acquistati all'estero.
Tale incremento è
comunque in parte controbilanciato dalla inevitabile contrazione dei consumi
stessi dovuta all'aumento dei prezzi di quanto in precedenza importato a basso
costo.
Inoltre il consumo del
singolo prodotto soggetto a limitazioni dell’import (di tipo economico e non)
dovrebbe essere talmente diffuso da giustificare i necessari investimenti per
attrezzare nuove linee di produzione atte a soddisfare le accresciute richieste
al mercato interno e ad implementare di conseguenza la occupazione.
Nella attuale situazione
solo un paese come gli USA, che ha da solo un immenso mercato interno ed è in
grado di promuovere con rapidità (non burocratica) eventuali nuovi investimenti
per produrre ciò che non avrebbe più la possibilità di importare a basso costo,
può attuare politiche veramente protezioniste senza causare una concreta forzata
diminuzione degli standard di consumo cui sono abituati i propri cittadini.
Considerando quanto sopra
si deduce che la globalizzazione non è un processo reversibile e anche stipulando
nuovi accordi internazionale nulla di veramente diverso i rappresentanti dei
vari stati, riuniti a Davos o altrove, potranno mai concepire.
Né gli attuali governanti
mondiali sembrano disposti o comunque capaci di accordarsi per la creazione di
nuove regole che tengano conto della opportunità di accelerare il processo
etico di redistribuzione della ricchezza mondiale di cui si è accennato sopra.
E’ il principio dello
sfruttamento, possibilmente immediato, che viene applicato nei rapporti
commerciali dalle nazioni cosiddette sviluppate con il resto dei paesi del
mondo.
Si deve notare infine che
le annuali riunioni a Davos in cui intervengono quasi tutti quelli che contano
(per lo più i capi di stato) per discutere del commercio mondiale, sono di
fatto promosse e sponsorizzate da un noto gruppo bancario internazionale,
certamente più attento agli utili futuri dei propri azionisti che ai possibili
benefici in favore delle nazioni più
svantaggiate e dei comuni cittadini del mondo.