giovedì 1 febbraio 2018

Mercato globale e politica

Il presidente degli USA Donald Trump sembra deciso a mantenere le promesse elettorali e a far valere tutta la sua autorità per preservare gli interessi (ovvero gli utili) delle imprese manifatturiere americane che rischiano di essere in parte lesi dall'enorme sviluppo del cosiddetto mercato globale.
La libera circolazione delle merci o di particolari prodotti non viene esclusa per principio (come talvolta storicamente verificatosi), ma alcuni beni saranno gravati da un dazio abbastanza consistente.

Come concreto inizio, in America per importare dall'estero alcuni elettrodomestici e i pannelli di trasformazione dell’energia solare, si dovranno pagare alla dogana tra il trenta e il cinquanta per cento del valore di quanto acquistato.

Anche qualche politico europeo ha da tempo espresso il proprio gradimento per una svolta protezionista genericamente ritenuta utile e le motivazioni addotte per caldeggiare tale provvedimento vanno oltre la semplice considerazione degli aspetti utilitaristici.

La giustificazione della opportunità di imporre notevoli dazi all'importazione o addirittura il divieto di libera circolazione di alcuni beni per molti (esperti di economia) europei ed in particolare italiani deriva addirittura da principi etici e non solo economici.

Viene fatto riferimento alle condizioni pessime ed in alcuni casi quasi inumane in cui sono costretti ad operare i dipendenti di molte aziende, specie di paesi orientali in via di sviluppo che esportano nel resto del mondo una miriade di oggetti, potendo produrre e vendere a basso costo, grazie ai sacrifici cui sono costretti i loro lavoratori.

Si affiancano pertanto oggi almeno due differenti concezioni del protezionismo, una puramente economica ed una etico economica.
Produrre dove si vuole e vendere dove vi è richiesta sono i principi della globalizzazione in atto e questo rende comunque difficile applicare la politica protezionista.

Lo stesso Trump, prima di decidere le tipologie degli elettrodomestici che saranno  assoggettati alle nuove imposizioni, ha sicuramente dovuto considerare anche quali e quante delle realtà produttive americane abbiano già de localizzato all'estero parte della produzione ed in effetti non ha potuto semplicemente sottoporre a tassa di importazione tutti gli elettrodomestici, ma solo quella parte di questi che viene in gran quantità fabbricata anche sul patrio suolo.

In Italia ed Europa la applicazione di dazi elevati sulle merci prodotte all'estero è prevalentemente ritenuta inopportuna e tale opinione è stata espressa anche in occasione della recente riunione di Davos dove quasi tutti i massimi rappresentanti dei vari paesi, discutendo di economia mondiale, si sono dichiarati di fatto favorevoli alla attuale regolamentazione internazionale.

In realtà tutte le polemiche in merito sono destinate a cessare quando le nazioni, attualmente sottosviluppate, che producono a basso costo e vendono in tutto il mondo, si saranno arricchite e affrancate dal sottosviluppo proprio grazie alla politica della libera circolazione dei beni e di conseguenza non sfrutteranno più, come fanno ora, i lavoratori.

Già oggi per esempio e da tempo, non risulta più conveniente produrre, come in passato, alcuni apparati elettronici in Taiwan, ove i costi locali del lavoro, la qualità della vita e il benessere stesso dei lavoratori sono cresciuti in parallelo allo sviluppo dell’economia, talchè alcune multinazionali che avevano investito in tale paese molti anni orsono hanno cessato di produrre e in pratica RIDELOCALIZZATO in altre nazioni.

La libera circolazione dei beni quindi favorirebbe lo sviluppo mondiale e contribuirebbe ad una più equa redistribuzione delle ricchezze.

Il problema è che a livello mondiale il riequilibrio tra paesi ricchi e poveri attraverso i meccanismi commerciali di tipo liberistico avviene nel lunghissimo periodo (decine di anni) e che ormai da troppo tempo i paesi più sviluppati sono interessati da una crisi economica, innescata dagli avventati, scorretti e predatori comportamenti di grandi banche  internazionali e finanzieri senza scrupoli.

La stessa crisi evidenzia ora la necessità di ottenere un incremento rapido della produzione e di conseguenza della occupazione, magari attraverso la limitazione delle importazioni di beni, per lo più di consumo, che verrebbero pertanto prodotti in casa anziché acquistati all'estero.

Tale incremento è comunque in parte controbilanciato dalla inevitabile contrazione dei consumi stessi dovuta all'aumento dei prezzi di quanto in precedenza importato a basso costo.

Inoltre il consumo del singolo prodotto soggetto a limitazioni dell’import (di tipo economico e non) dovrebbe essere talmente diffuso da giustificare i necessari investimenti per attrezzare nuove linee di produzione atte a soddisfare le accresciute richieste al mercato interno e ad implementare di conseguenza la occupazione.

Nella attuale situazione solo un paese come gli USA, che ha da solo un immenso mercato interno ed è in grado di promuovere con rapidità (non burocratica) eventuali nuovi investimenti per produrre ciò che non avrebbe più la possibilità di importare a basso costo, può attuare politiche veramente protezioniste senza causare una concreta forzata diminuzione degli standard di consumo cui sono abituati i propri cittadini.

Considerando quanto sopra si deduce che la globalizzazione non è un processo reversibile e anche stipulando nuovi accordi internazionale nulla di veramente diverso i rappresentanti dei vari stati, riuniti a Davos o altrove, potranno mai concepire.

Né gli attuali governanti mondiali sembrano disposti o comunque capaci di accordarsi per la creazione di nuove regole che tengano conto della opportunità di accelerare il processo etico di redistribuzione della ricchezza mondiale di cui si è accennato sopra.

E’ il principio dello sfruttamento, possibilmente immediato, che viene applicato nei rapporti commerciali dalle nazioni cosiddette sviluppate con il resto dei paesi del mondo.


Si deve notare infine che le annuali riunioni a Davos in cui intervengono quasi tutti quelli che contano (per lo più i capi di stato) per discutere del commercio mondiale, sono di fatto promosse e sponsorizzate da un noto gruppo bancario internazionale, certamente più attento agli utili futuri dei propri azionisti che ai possibili benefici  in favore delle nazioni più svantaggiate e dei comuni cittadini del mondo.